Publisher's Synopsis
Una delle preoccupazioni più diffuse nelle classi intellettuali dell'epoca presente è quella della degenerazione della razza, per rimediare alla quale si sono ottenute e si domandano ogni giorno innumerevoli leggi sociali, che controllino tutta la nostra vita in ogni sua azione. Il lavoro in genere, il lavoro delle donne e dei fanciulli in ispecie, il prosciugamento delle paludi, la ricostruzione delle strade, il loro ampliamento, e lo sventramento delle città; l'educazione, l'istruzione e le correzioni inflitte ai bambini; le nascite, le morti, i matrimoni; i cibi e le bevande di cui ci serviamo e perfin l'aria che respiriamo, tutto, per timore della degenerazione, si vorrebbe sottoporre a regolamenti. Ora è appunto di questa tanto temuta degenerazione, di cui si parla sempre vagamente assai più come di uno spauracchio impalpabile e minaccioso che come di una cosa precisa e reale, che io intendo trattare in questo breve studio; - della sua essenza - delle sue conseguenze individuali e sociali - dei danni e dei vantaggi che ne derivano - per vedere poi se e quanto queste preoccupazioni e queste legislazioni siano utili o dannose. Bisognerebbe per far questo cominciare dalla descrizione delle generazioni passate, da cui noi saremmo degenerati e confrontarle colle nostre. Disgraziatamente le notizie che noi possediamo sulle funzioni vitali dei nostri antenati sono troppo scarse per concederci di fare un paragone esatto e decisivo fra noi e loro. Ci resta però un sostitutivo, che le più recenti scoperte han debitamente, accreditato: lo studio dei popoli ancora selvaggi abitanti l'Asia, l'America l'Africa e l'Oceania, i quali rappresentano secondo le ricerche più moderne i vari aspetti degli uomini primitivi. Mi sia concesso, dunque, ricorrere in questo rapido e generico confronto, a questi nostri dimenticati fratelli contemporanei, i quali, risparmiati dai turbini che hanno continuamente scossa e forzatamente riplasmata la nostra razza bianca, perpetuano, al pari degli animali dei placidi fondi marini, l'antico modo di essere, di sentire e di agire dei nostri padri lontani, come la madre terra ce ne conserva le forme corporee sepolte insieme alle foreste e agli animali contemporanei. Cominciamo dalla sensibilità al dolore, che è uno dei moventi maggiori di tutte le azioni nostre e una delle degenerazioni più lamentate. Il Dumont, il Lafitau, il Lumholz, il Gray, il Duchard, il Mantegazza, il Letourneau raccontano di aver visto negli aridi deserti dell'Africa, nelle montuose regioni dell'America e nelle strane isole australiane, le donne affrontare senza un lamento il travaglio della maternità e riprendere tranquillamente i lavori abituali e le peregrinazioni della tribù (quando non dovevano assistere il marito che fa la couvade), appena dato alla luce il bambino che per nove mesi avevan portato nel seno senza dar segno di sofferenza. Gli ufficiali e i soldati nostri che hanno partecipato alla guerra africana, sono tornati stupiti della impassibilità con cui i nostri ascari sopportavan le ferite e si sottoponevano all'amputazione di un arto, adattandosi rapidamente a quelli di legno venuti dall'Italia. Il Mantegazza parla di un Neocaledonese, un certo Hongi, il quale visse molti anni con una palla nel polmone, che gli aveva lasciato un foro sul dorso, da cui egli faceva uscire l'aria fischiante quand'era di buon umore, per far ridere i suoi amici. In America si dice duro para morir como un Indo. E gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare.